Album di Famiglia è un libro che parla dei femminicidi nella cultura occidentale. È un libro narrativo, perché racconta una relazione di coppia dalle prime fasi dell’innamoramento fino alla sua tragica conclusione. La particolarità è che cambiano continuamente i protagonisti: ogni pagina mostra un ritratto – della donna uccisa, del suo assassino o di entrambi – e una breve frase tratta da un articolo di cronaca relativo a quel caso.
Alla fine del libro, subito prima della postfazione, c’è un breve testo in cui spiego, tra le altre cose, che le immagini e le frasi che ho usato per costruire il racconto provengono appunto da articoli di giornali online.
Quello che non specifico, perché irrilevante rispetto al senso del libro, è che tutti i giornali online che ho consultato sono giornali britannici. Questo fatto però è significativo perché non è dovuto a una mia scelta, ma a una necessità: il mio intento era di considerare casi accaduti in vari paesi; ma, almeno all’epoca in cui ho lavorato a questo progetto, e cioè tra il 2021 e il 2023, la stampa del Regno Unito era l’unica a dare una copertura sufficiente a quello che mi serviva, e cioè fotografie delle donne uccise e dei loro assassini e articoli abbastanza dettagliati da riportare la voce di chi era sopravvissuto (parenti, amici, l’assassino stesso, a parte nei casi non rarissimi in cui si era suicidato) e anche la voce delle stesse vittime, principalmente sotto forma di messaggi inviati a parenti o amiche. Spesso lo stesso caso era seguito da più testate fino alla conclusione del processo, talvolta addirittura riportando la cronaca dettagliata di quanto avveniva in tribunale. Dalle statistiche non risulta che i casi di femminicidio siano più frequenti in Gran Bretagna che altrove, ma per qualche motivo c’era un’attenzione mediatica molto superiore, ad esempio, a quella di Italia, Francia e Stati Uniti, altri paesi in cui ho provato a effettuare ricerche; e c’era da tempo, perché i casi che ho analizzato risalgono fino al 2012, anno a partire dal quale una ragazza che si chiama Karen Ingala Smith ha creato un sito, che ho usato come database, in cui tiene traccia di ogni donna che viene uccisa nel Regno Unito (https://kareningalasmith.com).
È altrettanto interessante notare che nel frattempo le cose in Italia sono cambiate: oggi c’è molta più attenzione mediatica di allora. Il punto di svolta è stato il caso di Giulia Cecchettin. Mi sono dato questa spiegazione: quando veniamo a conoscenza di qualcosa di orribile che è accaduto ad altri, credo che sia automatico, in maniera più o meno conscia, rapportarsi a quell’evento, e chiedersi, in sostanza, se quella stessa cosa potrebbe capitare a noi. Ed è altrettanto naturale cercare, se possibile, di esorcizzare quell’evento in modo da tranquillizzarci, per arrivare a dirci che noi, tutto sommato, siamo al sicuro: è per questo che gli incidenti aerei sono molto più spaventosi di quelli automobilistici: perché in quel caso non è possibile ingannarci, e sappiamo benissimo che non avremmo alcuna speranza; mentre quando ci mettiamo al volante in autostrada, anche se i rischi sono statisticamente maggiori, abbiamo l’illusione che sapremmo in qualche modo cavarcela ed evitare il peggio. Penso che lo stesso meccanismo sia in azione nel caso dei femminicidi: se l’assassino o la vittima sono stranieri, o uno dei due ha problemi psichici, o se l’episodio avviene in un contesto più o meno degradato, di isolamento o emarginazione sociale, o nel Sud del paese, o anche solo l’aspetto fisico delle persone coinvolte ha qualcosa di anomalo, ecco che questo può bastare a farci pensare: sono cose che accadono a loro, io non potrei mai essere coinvolto in vicende del genere. In mancanza di meglio si descrive l’assassino come un mostro: se gli uomini che uccidono la propria donna sono mostri, è ovvio che io li riconoscerei subito e ne starei alla larga, e questo mi tranquillizza. Che una simile considerazione implichi la colpevolizzazione della vittima, perché solo una sprovveduta si metterebbe con un uomo del genere, è per così dire un effetto collaterale. L’uccisione di Giulia Cecchettin ha spazzato via tutti questi alibi. Nessuno di questi pretesti era nemmeno lontanamente applicabile a lei o a Filippo Turetta: erano due ragazzi di buona famiglia, benestanti, belli, studenti universitari, e per di più vivevano nel ricco Nord-Est. Giulia era la ragazza che chiunque sarebbe felice di avere come figlia, eppure è accaduto anche a lei. Questo è il motivo per cui l’uccisione di Giulia è stata una notizia da prima pagina, e ha portato il problema dei femminicidi alla ribalta anche in Italia.
Quando ho iniziato a lavorare su questo progetto non avevo ben chiaro cosa ne sarebbe uscito. Sapevo solo che volevo cercare di costruire un racconto basato principalmente su materiali d’archivio, con l’intento di provare a descrivere “dal di dentro” quelle relazioni tossiche. Senza esserne pienamente consapevole, quindi, cercavo proprio di andare contro il meccanismo psicologico che ho appena descritto, che ci porta istintivamente ad allontanare da noi certe vicende. E quello che ho scoperto, in effetti, è che spesso non è affatto facile per una donna capire subito con chi ha a che fare. Questi uomini sono spesso abili manipolatori, riescono a tenere nascosto il loro lato oscuro, soprattutto nelle fasi iniziali della relazione. Una donna che aveva avuto una relazione con uno degli assassini dice di lui:
Era pieno di attenzioni, romantico.
E la sorella di una delle vittime:
Pensava di aver trovato il suo Principe Azzurro. Pensava che lui fosse il suo “per sempre felici e contenti”.
Viene il sospetto che queste donne siano state ingannate troppo facilmente, però credo sia capitato a tutti di conoscere persone che con il passare del tempo hanno rivelato aspetti del loro carattere del tutto insospettabili, e non dobbiamo dimenticare che quando siamo innamorati le nostre capacità di giudizio non sono propriamente al loro meglio. C’è poi da considerare il problema enorme che una volta che la relazione è iniziata è troppo tardi per uscirne. Come dice uno dei figli di un uomo che ha ucciso la moglie, la figlia e poi si è tolto la vita – cinque giorni dopo che la donna l’aveva lasciato:
La realtà è che non puoi restare e non puoi andartene.
Studiando le dinamiche delle relazioni tossiche ho scoperto che il comportamento di questi uomini segue uno schema sempre uguale. Sociologi e psicologi hanno individuato quattro fasi che si ripetono ciclicamente: la prima è detta luna di miele, ed è quella in cui appunto l’uomo appare come un principe azzurro, pieno di attenzioni e romantico. Da qui si passa alla fase della tensione, in cui l’uomo si arrabbia, urla, magari rompe qualche oggetto. Questo è il preludio alla terza fase, quella della violenza vera e propria contro la donna, alla quale segue poi – ovviamente nel caso in cui la violenza non sia stata fatale – la fase del pentimento, in cui l’uomo si scusa, giustifica il suo comportamento con motivi più o meno credibili (stress, difficoltà economiche o sul lavoro, malattie: non di rado queste motivazioni sono del tutto prive di fondamento), e naturalmente giura che la cosa non si ripeterà mai più. Da qui si riparte: dopo il pentimento l’uomo torna attento e amorevole, e il ciclo si ripete – luna di miele, tensione, violenza, nuovo pentimento, e così via. A seconda dei casi il ciclo può durare mesi, o settimane, nelle situazioni più drammatiche può svolgersi nell’arco della stessa giornata. Osservo en passant che il fatto che queste relazioni seguano tutte lo stesso schema è quello che mi ha permesso di costruire un’unica storia a partire da più di 60 casi diversi.
A questo punto non fa molta differenza se la donna vuole troncare la relazione o meno, perché, come si diceva prima, la realtà è che non puoi restare e non puoi andartene. Il motivo per cui non si può restare è chiaro; ma è anche molto difficile andarsene. Innanzitutto perché questi uomini non esitano a ricorrere alle minacce: leggo alcune delle frasi di questo mio racconto:
Minacciò di uccidere lei, il suo compagno e i loro figli.
Oppure:
Minacciò di uccidersi davanti ai bambini se lei lo avesse lasciato.
Una delle vittime manda a un’amica questo messaggio:
Se non ti ho mandato un messaggio entro domani a mezzogiorno, per favore chiama la polizia. Dico sul serio, perché non so davvero di cosa sia capace in questi giorni.
Un’altra dice, sempre a un’amica:
So che mi ucciderà.
Queste minacce purtroppo sono concrete, e sono tanto più difficili da gestire quando ci sono di mezzo dei figli. Sappiamo poi che molto spesso denunciare alla polizia non risolve la situazione: o non succede niente del tutto o si mettono in atto misure come il braccialetto elettronico, che non è garanzia sufficiente di sicurezza. In uno dei casi che ho raccolto il femminicidio è avvenuto addirittura in presenza di due poliziotti che erano intervenuti su chiamata della donna.
Ma c’è anche da considerare, oltre all’incolumità fisica, il fatto che questi uomini esercitano sempre forme di controllo strettissimo sulle donne, anche economico, il che rende difficile l’andarsene anche solo perché la donna non sarebbe in grado di mantenersi. Qualche altra frase tratta dal libro:
La controllava in continuazione, voleva sapere dove andava e quali amici frequentava.
Poi:
Controllava quello che lei comprava, era molto attento ai vestiti nuovi, a qualsiasi cosa che potesse essere un regalo, e leggeva anche i suoi messaggi.
Ancora:
Controllava ogni aspetto della sua vita.
E a volte andarsene è proprio impossibile:
Lui non andava a lavorare. Stavano insieme 24 ore al giorno e lei non aveva nessuna possibilità di scappare. L'unico momento in cui riusciva a stargli lontana era quando andava in bagno.
La questione del controllo viene fuori indirettamente anche dopo che la donna è stata uccisa. La scusa più frequente che gli uomini trovano per giustificare l’assassinio è “Ho perso il controllo”. Loro intendono il controllo su loro stessi, sulle proprie azioni, ma in realtà il motivo per cui hanno ucciso è che hanno perso il controllo sulla donna, oppure temevano di perderlo, perché spesso la paura che la donna possa andarsene o avere un altro uomo diventa paranoica.
Abbiamo già accennato al fatto che anche quando una donna trova il coraggio di denunciare le violenze le misure che vengono prese sono spesso inefficaci. Questo è naturalmente un problema urgente da risolvere. Limitarsi ad aumentare la pena non serve a nulla: già Beccaria ha mostrato che più che la gravità della pena è importante, come forma di prevenzione, la certezza della pena; ma in questo caso il problema non è neppure quello, perché il colpevole viene quasi sempre trovato, e addirittura sono frequenti i casi di femminicidio/suicidio. Bisogna quindi trovare il modo di garantire la sicurezza delle donne che denunciano e dei loro figli.
L’altro problema da risolvere è invece a lungo termine, ed è naturalmente quello culturale, il fatto cioè che sia ancora diffusa l’idea che in una relazione la donna è proprietà dell’uomo. Ricordiamo che in Italia le disposizioni sul delitto d’onore, che prevedeva che fosse ridotta la pena per chi uccidesse il coniuge, la figlia o la sorella al fine di difendere “l'onor suo o della famiglia”, in seguito a un tradimento, sono state abrogate solo nel 1981. E il delitto d’onore è un istituto giuridico di cui si hanno le prime tracce nel codice di Hammurabi della civiltà babilonese, nel XVIII secolo a. C., e forme di omicidio riparatore sono presenti anche nell’antica Grecia e nell’antica Roma. Si tratta insomma di un’idea radicata molto in profondità nella nostra cultura – e non solo nella nostra, naturalmente, ma a me interessa parlare di noi.
Per dare conto di questo aspetto ho inserito nel libro alcuni versi del Cantico dei Cantici, un poema d’amore presente nella Bibbia ebraica e in quella cristiana, nel quale è già presente appunto quest’idea di proprietà, e ho accompagnato i versi a immagini tratte da video presi dal web, nelle quali è mostrata la violenza che può derivare da questa concezione