Ho cominciato a fotografare la tangenziale semplicemente seguendo l'intuizione che potesse essere un posto interessante. A me interessa il paesaggio modificato dall'uomo, perché il modo in cui l'uomo modifica il suo ambiente è significativo di come viviamo. E l'autostrada è uno di quei luoghi di transito che caratterizzano la nostra epoca, è uno dei classici esempi di non-luogo secondo la definizione di Marc Augé. Perciò ho cominciato a fotografarla nel modo in cui si fa di solito fotografia documentaria: ho usato un'ottica normale, ho fotografato da una distanza media, e non ho cercato sfuocature o prospettive strane. Ho fatto insomma in modo di riprodurre fedelmente quello che vedevo, così che, se qualcuno di voi volesse, nelle condizioni atmosferiche adatte, andare a cercare i punti in cui ho appoggiato il cavalletto, ritroverebbe davanti ai suoi occhi le immagini del libro.
Poi, dopo il primo anno di lavoro, ho iniziato a mostrare una selezione di fotografie. In generale ho avuto un riscontro positivo, ma mi è anche stato detto che il paesaggio era mostrato in modo superficiale, e che avevo un approccio pittorico (il che, nella fotografia contemporanea, è poco meno di un insulto, perché significa usare la macchina fotografica per scimmiottare la pittura anziché per le sue caratteristiche specifiche). E dato che queste critiche provenivano da gente che si occupa di fotografia documentaria, ho capito che quello che stavo facendo era sì documentazione, ma che ci doveva essere anche dell'altro.
Il direttore del MoMA di New York negli anni '70, John Szarkowski, ha organizzato una famosa mostra in cui divideva i fotografi in due categorie, rappresentate dalle finestre e dagli specchi: i fotografi-finestra usano la macchina fotografica per raccontare il mondo, i fotografi-specchio la usano per raccontare se stessi. È stato grazie ai commenti (positivi e non) ricevuti che mi sono reso conto che il mio modo di fotografare risponde alla dichiarazione d'intenti che fu di Luigi Ghirri, il quale diceva di cercare un equilibrio tra questi due approcci, evitando sia di dare una rappresentazione del mondo troppo oggettiva e imparziale, sia una visione troppo intimista e personale, cercando invece un punto d'incontro tra conoscenza e poetica.
Le immagini che ho scattato indubbiamente mostrano l'autostrada e il paesaggio circostante così come appaiono in un qualunque grigio o nebbioso mattino d'inverno. Ma evidentemente trasmettono, almeno in parte, anche quella strana euforia che provavo quando ero in giro a fotografare, e che soltanto molto tempo dopo (nonostante Gaber faccia parte del mio DNA culturale fin da ragazzino) ho riconosciuto nella sensazione descritta da Gaber e Luporini ne L'illogica allegria.
Non è facile spiegare a parole quello che accade in situazioni come questa. Sicuramente sono fondamentali, oltre al luogo, le due condizioni che la canzone evidenzia subito: da solo – alle prime luci del mattino. Credo che il punto cruciale sia che in queste condizioni si esce dalla dimensione quotidiana del tempo. L'autostrada non è fatta per fermarsi, se non in caso di emergenza. E quindi decidere di scendere dall'automobile non per un guasto o perché ci si è persi, ma per il semplice desiderio di guardarsi intorno, disinteressatamente, è un po' come quando si dice "fermate il mondo, voglio scendere": si scende dal mondo creato dagli uomini, dove non il tempo non basta mai e si va sempre di fretta, e si scende invece nel mondo che esiste da molto prima degli uomini, e che ha ritmi talmente lenti e dilatati da sembrare immobile. Visto dalla tangenziale il paesaggio è quasi irreale, perché non si possono avvertire i suoni, gli odori, la temperatura dell'aria, e perché è visto sempre dallo stesso punto di vista. Ma quando sei su un prato a pochi metri dall'autostrada, ti rendi conto che quel prato è molto più reale di tutto quello che sta nell'abitacolo di un'automobile. Credo che l'illogica allegria derivi proprio dallo scoprire questo mondo, che siamo sempre meno abituati a frequentare, in un posto del tutto improbabile.
Sandro Luporini, che prima di essere l'autore dei testi di Gaber è un pittore, spiega così il suo rapporto con l'arte:
Credo che l'arte abbia una grande affinità con la religione. Proprio come quest'ultima, anche l'arte cerca di rivelare l'essenza delle cose, di trovare un orizzonte di significato, un senso da contrapporre alla realtà caotica in cui viviamo: l'arte è inspiegabilmente capace di opporre la propria assurda coscienza felice alla realtà infelice del mondo. Ma, mentre la religione pretende di aver rivelato il mistero, l'arte preferisce rispettarlo camminandogli semplicemente accanto. L'arte evoca il mistero, non lo spiega né lo possiede.
I momenti di felicità assurda, di "illogica allegria", per me hanno a che fare con quell'attimo in cui qualcosa pare rivelarsi, dischiudersi davanti a noi; hanno a che fare con la sospensione di un istante del tutto privo di passato e di futuro che sembra dilatarsi in un'attesa indefinita; hanno a che fare con un attimo in cui, in una luce particolare, si annulla il tempo.
Io trovo bellissima questa definizione di arte (anche perché comprende una definizione di ateo come di chi rispetta il mistero del mondo anziché cercare a tutti i costi di spiegarlo, definizione che trovo molto più qualificante di quella standard di non-credente). Ed è anche molto interessante che parli di rivelazione, di un particolare tipo di luce e di sospensione del tempo. La sospensione del tempo e la ricerca di una luce adatta sono due caratteristiche fondanti della fotografia, ma la parola "rivelazione" ci riporta dritti a quella ricerca di equilibrio tra rilevazione e rivelazione di cui parlavo prima.
Anche Hannes Wanderer, l'editore del libro, nella scheda di presentazione parla del tempo:
Nella luce incerta, la foschia o la nebbia del primo mattino, Alex Pardi non ha fotografato l’autostrada, ma la sensazione del tempo che si ferma, solo per te, in un attimo maledettamente reale che risveglia tutti i tuoi istinti e ti fa vedere con chiarezza. Tu sei lì, da solo, ma sei parte del mondo.
In questa inusuale dimensione possiamo fare due cose importanti: esplorare, e contemplare. Credo sia capitato a molti, da ragazzini, magari in vacanza (quando il tempo non esiste, appunto), di andare ad esplorare il bosco dietro casa, o un edificio abbandonato. Durante questo lavoro ho rivissuto quelle sensazioni. A casa consultavo la mappa, cercavo i punti che mi permettessero di avvicinarmi alla tangenziale dall'esterno, e pianificavo la strada per arrivarci. E già qui c'è una cosa interessante da notare, e cioè che un'autostrada altera in maniera curiosa la topologia del territorio, in particolare riguardo alle distanze. La tangenziale è fatta per consentire di raggiungere velocemente zone della città lontane tra loro, e quindi avvicina – in termini di tempo – punti che sono lontani nello spazio: però, allo stesso tempo, allontana punti che sono vicini. E quindi mi capitava, per arrivare sulla strada che vedevo pochi metri oltre il guard-rail, di dover percorrere qualche chilometro. Poi, una volta sul posto, cominciavo l'esplorazione a piedi, che a volte mi portava a scoperte inattese, come nel caso del Parco dell'Acqua di via Rubattino, un vero e proprio giardino pubblico con campo da basket, campo da calcetto e con un laghetto artificiale sovrastato dal viadotto della tangenziale Est, che dall'autostrada nessuno vede. Altre volte (e in realtà la maggior parte delle volte), mi trovavo invece a camminare, anche a lungo, in zone che non avevano nessuna attrattiva e in cui non c'era nulla da scoprire, ma che spesso erano aree ancora poco urbanizzate, con la tangenziale da una parte e i campi dall'altra. Era soprattutto in quei momenti che si manifestava l'illogica allegria.
C'è una frase di Roland Barthes cara molti fotografi di paesaggio. Barthes scrive:
Le fotografie di paesaggi (urbani o agresti che siano) devono essere abitabili, e non visitabili.
Tra abitare un luogo e visitarlo c'è una bella differenza. Il visitatore di una città, ad esempio, il turista, è lì apposta per guardarla, per vedere com'è fatta, ma il suo sguardo non può che fermarsi alla superficie delle cose, perché non è possibile, durante una visita, stabilire con un luogo quei legami che si formano soltanto con la frequentazione prolungata.
Nei non-luoghi che ho citato all'inizio l'abitabilità è esclusa a priori, perché sono luoghi di transito, come i centri commerciali, gli aeroporti, e, appunto, le autostrade. L'inabitabilità spesso si irradia da questi non-luoghi, come una malattia contagiosa. Non si può dire che i luoghi attraversati dalla tangenziale siano abbandonati, perché non è vero: sono strade, parcheggi, campi. Ma certamente non sono abitati. E così il territorio diventa un paesaggio alienato, ancora di più per chi lo vede solo dall'automobile, cioè sempre dallo stesso punto di vista e in una condizione di deprivazione sensoriale. È un paesaggio che scompare, e allora il tentativo che ho fatto è di farlo riapparire attraverso la fotografia, cercando quel niente, quel piccolo bagliore, quell'aria già vissuta di cui parlano Gaber e Luporini.